«Non muovetevi» ripeté il poliziotto,
tenendo lo sguardo fisso su loro e stringendo con entrambe le mani l’arma
alzata contro lui e Zec.
Billy non capì cosa stava accadendo. Un
attimo prima era uscito dal seminterrato dove Jordan Gutierrez aveva scatenato
più Inferni – tra cui un poliziotto zombie – e ora uno vero minacciava lui e il
suo ragazzo appena ritrovato, senza alcuna ragione, come se fossero due
pericolosi criminali.
«Agente, ci deve essere uno sbaglio»
disse Billy rimanendo vicino a Zec, senza muovere un muscolo.
«Abbiamo ricevuto diverse chiamate in
centrale per rumori e urla agghiaccianti provenienti dalla scuola» rispose il
poliziotto senza scostare la pistola dalla linea di tiro. «Non è la prima volta
che qui dentro succedono fatti… particolari.»
Billy non sapeva cosa dire. Il tono
dell’uomo pareva accusatorio, ma in realtà nessuno poteva sapere cosa fosse
successo realmente nella stanza della caldaia e chi fosse il responsabile.
Inoltre, tutti i ragazzi e gli adulti ancora presenti a scuola erano rimasti
bloccati nelle aule e come lui e Zec erano liberi da pochi minuti.
«Cosa diavolo sta facendo!» La
professoressa Noxon comparve alla spalle dell’uomo e avanzò furente verso di
lui. Aveva i capelli vaporosi in disordine, con ciocche castane che
svolazzavano intorno al viso mentre procedeva e il tailleur blu, di solito
sempre impeccabile, tutto spiegazzato e coperto da macchie bianco sporco.
«Abbassi quella pistola, subito! Non vede che sono due ragazzi spaventati come
noi? Sono studenti rimasti bloccati qui, non i responsabili!»
Billy tirò un sospirò di sollievo e per
la prima volta fu davvero felice di vedere l’insegnate del club di teatro.
Il poliziotto abbassò l’arma e assunse
una posa meno minacciosa. La donna lo superò, si sistemò dietro Billy e Zec,
coprendo con un braccio la spalla di ognuno dei due e gli lanciò
un’occhiataccia.
«Stavo solo facendo il mio lavoro»
rispose serio l’uomo. «Sono entrato e sono stati i primi due soggetti visti,
intimare loro di stare fermi è la prassi.»
«Vada a cercare i veri colpevoli e stia
attento a non puntare ancora quell’arma contro un mio collega o altri poveri
studenti» ribadì la professoressa Noxon perentoria.
Il poliziotto lanciò un ultimo sguardo
diffidente a lui e Zec e poi uscì dalla classe.
«“Servire e proteggere” un cavolo»
sbuffò arrabbiata e sgomenta la professoressa. «State bene ragazzi? Chi ha
divelto in quel modo la porta?»
«Non lo sappiamo» rispose Zec.
Billy pensò che in fondo era sincero,
quando era successo lui era una statua di vetro. «Siamo rimasti bloccati
nell’aula. Sono successe cose un po’ strane, poi la porta si è staccata ed è
arrivato quel poliziotto» mentì, recitando però in modo molto credibile.
La professoressa Noxon annuì comprensiva.
«Capisco, anche per noi del club di teatro è stata un’esperienza allucinante.
Speriamo possano chiarire cosa sia successo.» Li spinse poi gentilmente verso
l’uscita dell’aula. «Andiamo, abbiamo chiamato un paio dia ambulanze e tutti i
presenti devono essere accompagnati all’ospedale per un controllo.»
«Perché? Ci sono dei feriti?» si
preoccupò Billy.
«Sembrerebbe di no, ma la scuola ha una
politica ferrea per situazioni di questo tipo, o comunque simili a questa e
vuole avere conferme mediche.»
Billy e Zec si avviarono in corridoio in
compagnia della donna e nessuno fece più parola sull’accaduto.
«È totalmente inutile. Oltre che
snervante» si lamentò Betty.
Quando le ambulanze erano arrivate a
scuola, lei, gli altri studenti e i professori erano radunati nel cortile. I
paramedici avevano chiesto se ci fosse qualcuno che dovesse avere la precedenza
sugli altri e Donovan aveva urlato il suo nome, raccontando della caduta in
piscina e della perdita dei sensi. Così si ritrovava stesa in un letto
dell’ospedale, pur essendo in perfetta salute. «Ed è tutta colpa tua.»
Donovan la guardò impassibile. «Lo so. E
ne sono fiero.» Era in piedi vicino al letto, con le braccia conserte sul petto
e nessun segno di rimorso.
Betty si puntellò sui gomiti. «Avanti,
sai anche tu che è una stupidaggine. Sto bene. Quegli esami che mi hanno fatto
si riveleranno uno spreco di tempo.»
«Quando avrai una laurea in medicina,
prederemo in considerazione la tua diagnosi» replicò lui.
Betty trovava insopportabile quel suo
modo di fare, ma solo al quaranta per cento. Nel restante sessanta lo trovava
estremamente dolce. «Intendo dire, sappiamo entrambi che non mi è successo
nulla di veramente grave.» Si sforzò
di smussare l’insofferenza nella sua voce. «Ho avuto un attacco di panico. Ho
affrontato una delle mie più grandi paure e non ho retto lo stress. Non è
piacevole, ma neanche mortale.»
Donovan sospirò e lasciò scivolare le
braccia lungo i fianchi. «Ok, forse sono stato un po’ troppo apprensivo.»
Betty sorrise e poi tra loro calò il
silenzio. Nella furia di risalire dal seminterrato, rintracciare gli altri
compagni e uscire dalla scuola, non aveva avuto il tempo di metabolizzare tutto
quello che le era successo. C’era stata la parte da film horror, ma anche
quella inaspettata. Nel momento del pericolo, quando era stata in preda al
panico, si era appoggiata a Donovan e lui era rimasto a darle sostegno. Più di
quanto si aspettasse.
Betty si
tirò ancora più su, appoggiandosi al cuscino, contro lo schienale
reclinabile del letto. «Non ti ho neanche ringraziato» disse all’improvviso.
«Non è necessario» rispose il ragazzo.
«Invece lo è eccome.» Betty si scostò
lievemente, facendogli posto sul materasso. «Siediti qui vicino a me» lo
invitò. Si aspettò una delle solite battute di lui, ma Donovan l’accontentò
senza dire una parola. Con il viso a una spanna dal suo, continuò. «Devo anche
scusarmi. Non ti ho mai preso sul serio. Oggi, mi hai davvero colpito, non mi
capita spesso di perdere il controllo in quel modo e tu mi hai protetto. Ti sei
preso cura di me, lo fai anche adesso ed è qualcosa a cui non sono abituata. È…
nuovo, per me.»
«E le novità ti spaventano, giusto?»
domandò Donovan.
«A volte. Ma questa è diversa, è
qualcosa che ho sempre desiderato, ma non ho mai voluto ammetterlo.» Betty si
morse il labbro inferiore. «Cavoli, di solito sono brava con la sintesi e i
discorsi, ma ora mi sembra di non riuscire ad arrivare al punto.»
«Fai provare me» propose Donovan,
sorridendo. «Non ho una bella reputazione ai tuoi occhi, ma ora vedi qualcosa
di diverso. Fermami se sto sbagliando.»
«Vai avanti.»
«Bene. Tu mi piaci. E mi sembra che io
piaccio a te.» Donovan fece una breve pausa, durante la quale lei annuì.
«Allora buttiamoci. Proviamo a essere una coppia. O stare insieme, se
preferisci. Ognuno si impegnerà e vedremo come andrà.»
«Un po’ troppo sbrigativo, ma il
concetto è giusto.» Betty si sporse in avanti Gli prese il volto tra le mani e
lo baciò sulle labbra. Un bacio impacciato, con gli occhiali che le premevano
contro le guance, ma fu il suo primo vero bacio.
Donovan si staccò, dolcemente le spostò
le mani dalla sua guancia e sorrise. «Non male, ma dovremo fare pratica.»
Betty gli accarezzò il braccio con la mano destra. «Potremmo incominciare la
sera del ballo di fine anno, andandoci insieme.»
«Hai sempre della grandi idee.» Donovan
si alzò. «Vado a vedere a che punto sono i tuoi accertamenti, così puoi alzarti
da quel letto.»
«Ottimo» rispose Betty. «A volte, anche
tu hai grandi idee.»
Billy sostava davanti alle scale che dal
pronto soccorso portavano ai piani superiori. Era di nuovo molto vicino alla
sua controparte adulta. Aveva l’impressione di venirne attirato come un
magnete, anche se sapeva che fargli visita non avrebbe aggiunto nulla a quanto
già sapeva, o a come porvi rimedio.
«Ecco dov’eri finito.» Zec lo raggiunse
dal corridoio sulla destra. «Ho parlato con Michelle: sta bene, ma è stata bloccata
da una certa Marcy del suo gruppo di sostegno per disturbi alimentari, ma prima
è riuscita a vedere Donovan e Betty e stanno entrambi bene. Inoltre, la
professoressa Noxon sta tenendo d’occhio quel poliziotto che ci ha bloccati. Vuole
essere presente mentre fa domande a tutti quelli rimasti imprigionati.»
«E i gemelli?» domandò Billy senza
staccare gli occhi dalla scalinata.
«Non ho loro notizie. Ma conoscendoli,
una volta finito il pericolo, se ne saranno andati via di nascosto.» Zec si fermò al suo fianco. «Piuttosto, cosa
mi dici del ragazzo che ha scatenato tutto?»
«Jordan Gutierrez? È a posto. Gli ho
promesso che terrò segreto il suo coinvolgimento, si sta facendo visitare come
gli altri, ma non rappresenta più un problema» rispose distrattamente. Sentiva
il forte impulso di ritornare da Elliott Summerson, ma combatteva per non
farlo.
Zec gli mise una mano sulla spalla,
facendogli girare il volto verso di lui. «Billy, cosa c’è che non va? Sembra
che quegli scalini siano più interessanti di me.» Fece una lieve risata. «Vuoi…
rivederti. Cioè rivederlo, non so come esprimermi.»
«Sì» disse sincero Billy. «Sto lottando
per non andare di nuovo nella sua stanza.»
«Perché?»
«Tanto non cambierebbe nulla. Non
otterremo delle risposte in più su come è finito… o sono finito, in quel letto
e in coma.»
Zec gli afferrò la mano e lo trascinò
sulle scale. «Non ti farà neanche male. Andiamo.»
Billy non si oppose. Forse Zec aveva
ragione, si lasciò guidare per la rampa, fino ai due piani successivi. Uscirono
dalla tromba delle scale e entrarono nel corridoio del piano. Sembrava deserto.
Percorsero spediti il tratto e giunsero alla camera di Elliott.
Zec posò il palmo sul pomello e lo fece
girare, la porta della camera si aprì e intravidero il suo corpo steso. Fecero
entrambi un passo avanti per introdursi nella camera.
«Non potete stare qui.»
Si voltarono di scatto. La voce giovane
di un infermiere poco più alto di loro, con i capelli castano chiaro a
spazzola, un fascicolo sotto braccio e arrivato di soppiatto alle spalle, li
fece bloccare.
«Solo i parenti potrebbero fare visite,
ma…» l’infermiere si zittì e rimase a fissare il viso di Billy. «Però tu
assomigli molto al signor Summerson, per caso…»
«È così» intervenne Zec. «È un
familiare.»
L’infermiere inarcò un sopracciglio.
«Davvero? Nella sua cartella c’è scritto che non ha parenti in vita.»
«Infatti… perché… ecco, è una questione
complicata» continuò Zec. «Vede, lui, il mio amico, lui è il… fratello.»
Billy si voltò a guardarlo, cercando di
mascherare la sua stessa sorpresa per la sfacciataggine con cui aveva sparato
quella menzogna.
«Mi prendete in giro?» chiese serio
l’infermiere, stringendo con le dita della mano sinistra la cartella sotto
il braccio destro.
«È vero, io… cioè lui… Elliott Summerson
è il mio fratellastro» ripeté Billy.
Zec si avvicinò al suo interlocutore.
«Ha notato come si somigliano? Il mio amico ha scoperto da poco questo legame»
disse a bassa voce. «Sa, suo padre non è mai stato molto fedele ed è morto da
poco. Frugando tra le sue cose, il mio amico ha scoperto di avere un fratello
più grande, ma non vuole che lo sappia anche sua madre.»
L’infermiere allargò le labbra, quasi a
formare un cerchio perfetto per la sorpresa della sconvolgente rivelazione.
«Oh. Mi dispiace. Non volevo essere inopportuno.»
«Non c’è problema» rispose Billy.
«Comunque non posso farvi entrare.
Dovete tornare con un permesso firmato che certifica la parentela.»
«Certo, ma a noi bastano poche
informazioni» provò Zec.
Billy si concentrò nella sua espressione
più triste e strappalacrime. «So che non è la prassi, ma vorrei solo sapere
come mio fratello è finito in quello stato. Se dovessi coinvolgere mia madre,
soffrirebbe troppo.»
L’infermiere li scrutò pensieroso. Poi
afferrò la cartella clinica e l’aprì davanti a sé. «D’accordo, farò uno strappo
alla regola, dato che è un caso un po’ particolare.» Scorse con lo sguardo le
notizie e poi disse: «Tuo fratello è in coma da circa undici anni.»
«Undici? Da così tanto?» domandò Billy
allibito.
L’infermiere annuì e proseguì a leggere
silenzioso.
Zec lo osservò sulle spine. «Può dirci la
causa del coma?»
«Be’ quello è un vero mistero.»
L’infermiere alzò gli occhi dal foglio e li guardò in faccia. «È stato trovato
in quello stato in casa. Non c’era niente nelle vicinanze che indicasse l’uso
di farmaci o altro. E dalle analisi non è emersa nessuna allergia, infezione o
causa esterna che giustificasse il coma.»
«Quindi è come se si fosse addormentato»
ipotizzò Zec.
L’infermiere chiuse la cartella. «In un
certo senso sì, è come se fosse così, ma scientificamente non è possibile. Hanno
ipotizzato un disturbo simile alla Sindrome Kleine-Levin, alcuni la conoscono
come “sindrome della bella addormentata”, ma il sonno permanente non è tipico
di quella patologia. Continuiamo a svolgere i test di routine e a cercare un
modo per portarlo a svegliarsi, ma senza successo. Al momento ci limitiamo a
tenerlo in vita. Mi dispiace ragazzi, ma non posso dirvi altro.»
Billy lo fissò assente. «La ringrazio.
Ci è stato di grande aiuto.» Si girò e torno sui suoi passi verso le scale.
«Grazie ancora. E scusi per il
disturbo.» Zec si sforzò di sorridere all’infermiere, poi corse dietro al
compagno.
Scesero entrambi la prima rampa di
scale, Billy si sentiva in trance, scioccato da quella scoperta. A metà della seconda tornata di scalini, Zec
gli afferrò con forza il braccio, facendolo riscuotere.
«Aspetta. Che ti prende. Sei sconvolto?»
«Non lo hai capito?» dallo sguardo del
compagno, Billy realizzò che la conclusione non era stata lampante anche per
lui. «Non è stato vittima di un incidente. È un coma autoindotto.»
Zec strabuzzò gli occhi. «Aspetta… se lo
è procurato da solo?»
«Esatto. La cosa peggiore è che non
penso sia un caso quello successo dopo. Sapeva a cosa andava incontro, quello
che avrebbe scatenato» disse Billy amareggiato. «E questo complica tutto. Non
si può svegliare un uomo che ha scelto di entrare in coma.»
Continua…?
Nessun commento:
Posta un commento