lunedì 29 ottobre 2018

Darklight Children - Capitolo 83


CAPITOLO 83

Ricordo/Visione

 

Naoko  lo guardò dubbiosa. «È davvero sicuro di non aver bisogno di nulla?»
Fermo sul pianerottolo, davanti alla porta del suo appartamento, Patrick annuì. «Sto meglio» rispose, sperando che un sorriso riuscisse a mascherare il fastidio che provava per la fitta alla testa, che non accennava a svanire. «Vai a casa e fai attenzione.»
La ragazza rimase a fissarlo per pochi secondi. Il gatto nero, tra le sue braccia insieme a quello bianco, si mosse. «D’accordo. Non si preoccupi: Ombra e Scintilla stanno per svegliarsi. Forse gli anestetici che gli hanno dato sono meno forti del previsto.»
Le fece un cenno con la mano, lei ricambiò il saluto e abbandonò e scese le scale, scomparendo dopo la prima rampa.
Patrick inserì la chiave nella serratura, entrò in casa e chiuse la porta, Si appoggiò all’uscio e trasse un lungo sospiro. Aveva impiegato diversi minuti per convincerla che stava bene e poteva lasciarlo solo. Voleva che arrivasse a casa in fretta, altrimenti quello a preoccuparsi sarebbe stato lui.
Anche se Naoko aveva richiamato come scorta una schiera di felini e lui li aveva visti attenderla fuori dal palazzo, mentre lo accompagnava fino al suo appartamento, Patrick non voleva che corresse altri rischi a causa sua. 
Barcollò fino alla sua stanza e si buttò sul letto senza svestirsi. L’ambiente era illuminato dalla luce esterna, un misto di bagliore lunare e luce elettrica, che filtrava dai vetri della finestra.  Ripensò agli eventi della sera e si sentì un emerito idiota. Era andato fino al luogo in cui riposava il Sigillo per assicurarsi che Sara stesse bene ed era stato lui quello che si era fatto ferire.
«Bell’esempio di persona adulta» si disse. In realtà si vergognava per un’altra ragione. Si era quasi tradito poche ore prima. Da quando Sara lo aveva baciato e aveva cercato di fare l’amore con lui, Patrick aveva capito che non gli era indifferente.
Provare qualcosa per lei era sbagliato? In fin dei conti era maggiorenne e lui non era tanto più vecchio di lei.
«Che diavolo vado a pensare» si rimproverò, scuotendo la testa per scacciare quei pensieri.
Una fitta di dolore gli attraversò le tempie. Il colpo subito dall’arma di quella ragazza non era poi così innocuo. Si tolse i guanti di pelle e li gettò sul comodino.
Doveva concentrarsi su questi nuovi ragazzi, tenerli a bada prima che diventassero un pericolo per tutti.
Il dolore alla testa riprese a tormentarlo. Più forte, acuto e martellante. Non sapeva come calmarlo, non poteva rivolgersi a un medico. Per non correre rischi si sarebbe preso un paio di aspirine.
Tentò di sollevarsi dal materasso, ma il male lancinante al capo lo fece ricadere sulla schiena. Le fitte divennero più ravvicinate e più profonde. Era come se qualcosa spingesse per uscire dalla sua nuca. Urlò e si portò le mani alle tempie, quasi la testa stesse per scoppiargli.
Non ci fu nessuna esplosione fisica, ma le visioni riempirono la sua mente.

La casa era in fiamme. Tossì ripetutamente e poi si ricordò di Samuele. Era ancora prigioniero all’interno. Tirò l’impermeabile sopra la testa e si ributtò in quell’inferno.
Non sprecò tempo e fiato a chiamarlo, rischiava solo di inalare altro fumo e gli sarebbe stato letale.
La cucina era il punto di origine dell’incendio, ma il ragazzino era nel salone. Stava guardando la televisione. Uno strumento alimentato elettricamente. Si appiattì sul pavimento e lo scorse. Samuele era steso in terra, tra il tavolino con le riviste e il divano. Lo sollevò, avvolgendolo nell’impermeabile e lo strinse tra le sue braccia.
Guardò davanti a sé: rifare il percorso al contrario sarebbe stato più complicato. Si erano scatenate fiamme dovunque.
Il fuoco divampava ed era abbagliante.
Tanto da spingerlo a chiudere gli occhi. Li riaprì ed era altrove.
Camminava nei grigi corridoi del C.E.N.T.R.O., fissando le pareti ai due lati. Non era certo il posto più allegro dove far crescere dei ragazzini. Magari abbellirlo un po’ con qualche poster avrebbe fatto la differenza. Mentiva a se stesso per non accettare la realtà. Comunque la dipingi, una prigione, rimane una prigione.
Girò la manopola della stanza adibita ad aula. Gli altri ragazzi se ne erano già andati, ma Samuele era ancora lì: seduto da solo dietro al banco.
Si piegò sulle gambe, in modo che i loro volti fossero alla stessa altezza.
«Ti sei dimenticato di nuovo del nostro appuntamento.»
Samuele non rispose.
«Lo sai che è per il tuo bene. Per evitare altri incidenti.»
«Voglio andare a casa» disse Samuele.
«Lo so e ti riporterò io personalmente» rispose. «Ma prima dobbiamo insegnarti a  controllare il tuo dono. Non possiamo rischiare che tu faccia del male a mamma o papà.»
«Non è vero! È una bugia.» Samuele scattò in piedi e corse verso la porta.
«Samuele!»
Il ragazzino si bloccò. Si girò lentamente e lo guardò con disprezzo, come può disprezzare un ragazzino della sua età. «Stai mentendo. So cosa farete. Gli altri ragazzi non fanno che ripetermelo.»
Avanzò verso di lui e gli mise le mani sulle spalle. «Cosa ti hanno detto?»
«Non andrò mai via da qui. Loro sono entrati prima di me e non sono più usciti.»
Non poteva negarlo. Aveva avuto anche lui gli stessi pensieri, gli stessi dubbi. Li aveva ignorati ogni volta che erano emersi a stuzzicarlo, ma non lo avrebbe fatto questa volta. Aveva portato lui Samuele in quell’istituto e non intendeva rinchiuderlo lì.
Si accovacciò ancora davanti al ragazzino. «Facciamo un patto. Parlerò con il professor De Santi e gli chiederò spiegazioni. Mi farò confermare e giurare che una volta imparato a controllarti, sarai libero di tornare a casa tua.» Vide il barlume della speranza e della fiducia affacciarsi nei giovani occhi del ragazzino. «Però tu non devi più saltare nessuna lezione con me. Prima saprai come usare il tuo potere, prima potrò portarti dai tuoi genitori.»
«Me lo prometti?»
«Croce sul cuore» rispose disegnando due linee immaginarie sul petto.
Samuele sorrise. L’aria intorno a lui si riempì di elettricità e dal suo corpo sprizzarono scintille. Erano così  luminose…
Ancora troppa luce. Si coprì il volto, quando scostò la mano, non poteva muovere un muscolo.
Era steso su un tavolo di marmo gelido. Il freddo gli passava attraverso la pelle nuda della schiena, sul petto avevano disegnato un simbolo.
Rimase immobile, girò solo gli occhi per scrutare i presenti. Erano in cinque, tutti con una casacca viola e con il cappuccio calato sul volto. Si erano disposti in circolo intorno al tavolo, intorno a lui.
La lampada al neon illuminava debolmente la stanza. Era sufficiente per indicargli che era nel misterioso sotterraneo del C.E.N.T.R.O. Aveva sperato di non doverlo visitare in quel modo.
Uno dei cinque, quello ai suoi piedi, iniziò a recitare una formula. Sembrava un rito, qualcosa di antico. Oppure qualcosa senza senso. A ogni modo, non capiva quello che dicevano. Gli altri lo imitarono uno dopo l’altro, partendo da quello al fianco del primo, seguito da quello alla sua destra e poi da quello alla sua sinistra.
Tra di loro dovevano esserci anche una o più donne. La voce femminile si mischiava a quelle maschili e non riusciva ad identificare in quante potevano essere.
L’individuo dietro di lui, che aveva visto solo come un’ombra incombente, si mosse di un paio di passi, in modo da rientrare ampiamente nel suo campo visivo. Gli mise la mano sinistra sulla fronte e con la destra si fece scivolare il cappuccio sulle spalle.
Dal volto appariva un uomo adulto, ma non in età avanzata. Aveva i capelli castano chiari e due lunghe basette, che davano inizio a una cornice di barba curata intorno alle labbra carnose.
Gli sorrise. Non sembrava cattivo. Forse voleva rassicurarlo. Però non ci riuscì.
Era terrorizzato da quello che stava per accadere.

Patrick si rizzò a sedere sul letto come spinto da una molla invisibile, alla stessa velocità con cui escono i pupazzi dalle vecchie scatole giocattolo.
Inspirò avidamente aria sia dal naso, che dalla bocca. Uscire da quella trafila di visioni era come riemergere da un pozzo profondo.
Sudato e ansimante, cercò a tentoni i guanti sul comodino e ci fece scivolare di nuovo le mani all’interno.
Passati i primi istanti di confusione, fu pervaso da un’inaspettata euforia. Il suo corpo gli stava suggerendo la verità su ciò che la sua mente gli aveva appena offerto.
Quelle che aveva avuto non erano state comuni visioni. Erano molto di più. Non sapeva come o perché erano spuntati proprio in quel momento, ma i ricordi erano finalmente tornati da lui. Aveva assistito a eventi del suo passato, lo stesso che aveva rincorso e desiderato scoprire a lungo senza successo.
«Samuele… il C.E.N.T.R.O. e quell’uomo.»
Erano i primi pezzi del puzzle. Il ragazzino lo aveva riconosciuto dal ritaglio di giornale che aveva avuto fin dal giorno in cui era tornato dall’ospedale E se come supponeva anche gli altri due appartenevano alla sua vita prima che la mente diventasse una tabula rasa, ora poteva cominciare a ricostruire chi era stato prima del coma. Ma non poteva farlo da solo.
Patrick sorrise. Sapeva chi chiamare per ricevere aiuto.

 
Continua…

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