CAPITOLO 83
Ricordo/Visione
Naoko
lo guardò dubbiosa. «È davvero sicuro di non aver bisogno di nulla?»
Fermo sul pianerottolo, davanti alla
porta del suo appartamento, Patrick annuì. «Sto meglio» rispose, sperando che
un sorriso riuscisse a mascherare il fastidio che provava per la fitta alla
testa, che non accennava a svanire. «Vai a casa e fai attenzione.»
La ragazza rimase a fissarlo per pochi
secondi. Il gatto nero, tra le sue braccia insieme a quello bianco, si mosse. «D’accordo.
Non si preoccupi: Ombra e Scintilla stanno per svegliarsi. Forse gli anestetici
che gli hanno dato sono meno forti del previsto.»
Le fece un cenno con la mano, lei
ricambiò il saluto e abbandonò e scese le scale, scomparendo dopo la prima
rampa.
Patrick inserì la chiave nella
serratura, entrò in casa e chiuse la porta, Si appoggiò all’uscio e trasse un
lungo sospiro. Aveva impiegato diversi minuti per convincerla che stava bene e
poteva lasciarlo solo. Voleva che arrivasse a casa in fretta, altrimenti quello
a preoccuparsi sarebbe stato lui.
Anche se Naoko aveva richiamato come
scorta una schiera di felini e lui li aveva visti attenderla fuori dal palazzo,
mentre lo accompagnava fino al suo appartamento, Patrick non voleva che
corresse altri rischi a causa sua.
Barcollò fino alla sua stanza e si buttò
sul letto senza svestirsi. L’ambiente era illuminato dalla luce esterna, un
misto di bagliore lunare e luce elettrica, che filtrava dai vetri della
finestra. Ripensò agli eventi della sera
e si sentì un emerito idiota. Era andato fino al luogo in cui riposava il
Sigillo per assicurarsi che Sara stesse bene ed era stato lui quello che si era
fatto ferire.
«Bell’esempio di persona adulta» si
disse. In realtà si vergognava per un’altra ragione. Si era quasi tradito poche
ore prima. Da quando Sara lo aveva baciato e aveva cercato di fare l’amore con
lui, Patrick aveva capito che non gli era indifferente.
Provare qualcosa per lei era sbagliato?
In fin dei conti era maggiorenne e lui non era tanto più vecchio di lei.
«Che diavolo vado a pensare» si
rimproverò, scuotendo la testa per scacciare quei pensieri.
Una fitta di dolore gli attraversò le
tempie. Il colpo subito dall’arma di quella ragazza non era poi così innocuo.
Si tolse i guanti di pelle e li gettò sul comodino.
Doveva concentrarsi su questi nuovi
ragazzi, tenerli a bada prima che diventassero un pericolo per tutti.
Il dolore alla testa riprese a
tormentarlo. Più forte, acuto e martellante. Non sapeva come calmarlo, non
poteva rivolgersi a un medico. Per non correre rischi si sarebbe preso un paio
di aspirine.
Tentò di sollevarsi dal materasso, ma il
male lancinante al capo lo fece ricadere sulla schiena. Le fitte divennero più
ravvicinate e più profonde. Era come se qualcosa spingesse per uscire dalla sua
nuca. Urlò e si portò le mani alle tempie, quasi la testa stesse per
scoppiargli.
Non ci fu nessuna esplosione fisica, ma
le visioni riempirono la sua mente.
La
casa era in fiamme. Tossì ripetutamente e poi si ricordò di Samuele. Era ancora
prigioniero all’interno. Tirò l’impermeabile sopra la testa e si ributtò in
quell’inferno.
Non
sprecò tempo e fiato a chiamarlo, rischiava solo di inalare altro fumo e gli
sarebbe stato letale.
La
cucina era il punto di origine dell’incendio, ma il ragazzino era nel salone.
Stava guardando la televisione. Uno strumento alimentato elettricamente. Si
appiattì sul pavimento e lo scorse. Samuele era steso in terra, tra il tavolino
con le riviste e il divano. Lo sollevò, avvolgendolo nell’impermeabile e lo strinse
tra le sue braccia.
Guardò
davanti a sé: rifare il percorso al contrario sarebbe stato più complicato. Si
erano scatenate fiamme dovunque.
Il
fuoco divampava ed era abbagliante.
Tanto
da spingerlo a chiudere gli occhi. Li riaprì ed era altrove.
Camminava
nei grigi corridoi del C.E.N.T.R.O., fissando le pareti ai due lati. Non era
certo il posto più allegro dove far crescere dei ragazzini. Magari abbellirlo
un po’ con qualche poster avrebbe fatto la differenza. Mentiva a se stesso per
non accettare la realtà. Comunque la dipingi, una prigione, rimane una
prigione.
Girò
la manopola della stanza adibita ad aula. Gli altri ragazzi se ne erano già
andati, ma Samuele era ancora lì: seduto da solo dietro al banco.
Si
piegò sulle gambe, in modo che i loro volti fossero alla stessa altezza.
«Ti
sei dimenticato di nuovo del nostro appuntamento.»
Samuele
non rispose.
«Lo
sai che è per il tuo bene. Per evitare altri incidenti.»
«Voglio
andare a casa» disse Samuele.
«Lo
so e ti riporterò io personalmente» rispose. «Ma prima dobbiamo insegnarti
a controllare il tuo dono. Non possiamo
rischiare che tu faccia del male a mamma o papà.»
«Non
è vero! È una bugia.» Samuele scattò in piedi e corse verso la porta.
«Samuele!»
Il
ragazzino si bloccò. Si girò lentamente e lo guardò con disprezzo, come può
disprezzare un ragazzino della sua età. «Stai mentendo. So cosa farete. Gli
altri ragazzi non fanno che ripetermelo.»
Avanzò
verso di lui e gli mise le mani sulle spalle. «Cosa ti hanno detto?»
«Non
andrò mai via da qui. Loro sono entrati prima di me e non sono più usciti.»
Non
poteva negarlo. Aveva avuto anche lui gli stessi pensieri, gli stessi dubbi. Li
aveva ignorati ogni volta che erano emersi a stuzzicarlo, ma non lo avrebbe
fatto questa volta. Aveva portato lui Samuele in quell’istituto e non intendeva
rinchiuderlo lì.
Si
accovacciò ancora davanti al ragazzino. «Facciamo un patto. Parlerò con il
professor De Santi e gli chiederò spiegazioni. Mi farò confermare e giurare che
una volta imparato a controllarti, sarai libero di tornare a casa tua.» Vide il
barlume della speranza e della fiducia affacciarsi nei giovani occhi del
ragazzino. «Però tu non devi più saltare nessuna lezione con me. Prima saprai
come usare il tuo potere, prima potrò portarti dai tuoi genitori.»
«Me
lo prometti?»
«Croce
sul cuore» rispose disegnando due linee immaginarie sul petto.
Samuele
sorrise. L’aria intorno a lui si riempì di elettricità e dal suo corpo
sprizzarono scintille. Erano così
luminose…
Ancora
troppa luce. Si coprì il volto, quando scostò la mano, non poteva muovere un
muscolo.
Era
steso su un tavolo di marmo gelido. Il freddo gli passava attraverso la pelle
nuda della schiena, sul petto avevano disegnato un simbolo.
Rimase
immobile, girò solo gli occhi per scrutare i presenti. Erano in cinque, tutti
con una casacca viola e con il cappuccio calato sul volto. Si erano disposti in
circolo intorno al tavolo, intorno a lui.
La
lampada al neon illuminava debolmente la stanza. Era sufficiente per indicargli
che era nel misterioso sotterraneo del C.E.N.T.R.O. Aveva sperato di non
doverlo visitare in quel modo.
Uno
dei cinque, quello ai suoi piedi, iniziò a recitare una formula. Sembrava un
rito, qualcosa di antico. Oppure qualcosa senza senso. A ogni modo, non capiva
quello che dicevano. Gli altri lo imitarono uno dopo l’altro, partendo da
quello al fianco del primo, seguito da quello alla sua destra e poi da quello
alla sua sinistra.
Tra
di loro dovevano esserci anche una o più donne. La voce femminile si mischiava
a quelle maschili e non riusciva ad identificare in quante potevano essere.
L’individuo
dietro di lui, che aveva visto solo come un’ombra incombente, si mosse di un
paio di passi, in modo da rientrare ampiamente nel suo campo visivo. Gli mise
la mano sinistra sulla fronte e con la destra si fece scivolare il cappuccio
sulle spalle.
Dal
volto appariva un uomo adulto, ma non in età avanzata. Aveva i capelli castano
chiari e due lunghe basette, che davano inizio a una cornice di barba curata
intorno alle labbra carnose.
Gli
sorrise. Non sembrava cattivo. Forse voleva rassicurarlo. Però non ci riuscì.
Era
terrorizzato da quello che stava per accadere.
Patrick si rizzò a sedere sul letto come
spinto da una molla invisibile, alla stessa velocità con cui escono i pupazzi
dalle vecchie scatole giocattolo.
Inspirò avidamente aria sia dal naso,
che dalla bocca. Uscire da quella trafila di visioni era come riemergere da un
pozzo profondo.
Sudato e ansimante, cercò a tentoni i
guanti sul comodino e ci fece scivolare di nuovo le mani all’interno.
Passati i primi istanti di confusione,
fu pervaso da un’inaspettata euforia. Il suo corpo gli stava suggerendo la
verità su ciò che la sua mente gli aveva appena offerto.
Quelle che aveva avuto non erano state
comuni visioni. Erano molto di più. Non sapeva come o perché erano spuntati
proprio in quel momento, ma i ricordi erano finalmente tornati da lui. Aveva
assistito a eventi del suo passato, lo stesso che aveva rincorso e desiderato
scoprire a lungo senza successo.
«Samuele… il C.E.N.T.R.O. e quell’uomo.»
Erano i primi pezzi del puzzle. Il
ragazzino lo aveva riconosciuto dal ritaglio di giornale che aveva avuto fin
dal giorno in cui era tornato dall’ospedale E se come supponeva anche gli altri
due appartenevano alla sua vita prima che la mente diventasse una tabula rasa,
ora poteva cominciare a ricostruire chi era stato prima del coma. Ma non poteva
farlo da solo.
Patrick sorrise. Sapeva chi chiamare per
ricevere aiuto.
Continua…